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I medici e la «desistenza terapeutica»

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TORINO— Ogni anno nei reparti di rianimazione italiani circa 18 mila decessi avvengono perché i medici sospendono le terapie inutili. Il 62% delle morti secondo uno studio condotto in 84 reparti di rianimazione e terapia intensiva nel 2005. I dati saranno diffusi oggi a Torino, al 61º Congresso degli anestesisti e rianimatori italiani. Numeri che riaprono il dibattito. Come definire il distacco dalla ventilazione forzata o l’interrompere le flebo nutritive in un paziente terminale? Eutanasia o interruzione dell’accanimento terapeutico? Loro, i ricercatori, parlano di «desistenza terapeutica». Lo studio condotto dal milanese Guido Bertolini, epidemiologo al «Mario Negri» e dal Gruppo italiano di valutazione degli interventi in terapia intensiva ha esaminato 3.800 decessi avvenuti nel 2005 in 84 reparti di rianimazione sparsi in tutto il paese. «Su circa 150.000 pazienti che ogni anno entrano in questi centri — ha spiegato Bertolini —un quinto non sopravvive, circa 30.000 persone. E nel 62% di questi casi, il decesso sopravviene perché i medici, perlopiù dopo un confronto con i familiari, decidono un atto di "desistenza terapeutica", come può essere quello di sospendere la ventilazione forzata o non aggiungere un’ulteriore cura che si ritiene inutile».

RICERCA DURATA UN ANNO - Il dato, frutto di una ricerca durata oltre un anno, colpisce per la sua rilevanza, assoluta e percentuale, proprio nel momento in cui il caso di Eluana Englaro e altre vicende di malati gravissimi che chiedono la «buona morte» riaccendono le polemiche sulle decisioni di fine vita. E su chi debba prenderle. Bertolini e i suoi colleghi ammettono la grande incertezza legale: «Si tratta di scelte che oggi non sono adeguatamente regolate. C’è il rischio per i medici di commettere, o di sospendere o di non compiere, gesti che potrebbero essere contestati, e c’è quello, ancora peggiore, di non sottoporre i pazienti in condizioni gravissime a atti di sostegno che poco dopo potrebbero dover essere sospesi. Infine, c’è il pericolo di provocare agonie più lunghe e strazianti del necessario». Lo spettro è proprio quello della parola «eutanasia», spesso usata a sproposito e agitata comeun ideologia, in contrapposizione alla realtà quotidiana e al lavoro di chi ogni giorno deve decidere se attaccare o meno un paziente al respiratore o se insistere con terapie inutili.

«DIVERSA DALL'EUTANASIA» - «E’ improprio parlare di eutanasia — conclude l’epidemiologo milanese — perché questi pazienti non sono né in coma da anni né hanno avuto la possibilità di esprimersi sulle cure che desiderano e perché non c’è dibattito sulla qualità della loro vita né della loro morte, ma soltanto un problema di tempo. Si tratta di casi senza speranza: traumi gravissimi, complicazioni polmonari giunte al termine di una gravissima malattia e così via». Casi diversi, insomma, da quello di Piergiorgio Welby, una vicenda nella quale, comunque, «è ugualmente impreciso parlare di eutanasia ». Ma dal congresso dei medici che ogni giorno sono chiamati a compiere scelte drammatiche —esempio che è stato richiamato anche dall’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne presente all’inaugurazione — arriva anche un appello. «Questi numeri — dicono Bertolini e Marco Ranieri, anestesista dell’ospedale Molinette a Torino — dimostrano quanto sia urgente che il Parlamento, dove sono state depositate ben dieci proposte di legge, fissi norme chiare in materia. I medici e le famiglie non possono essere lasciati soli. E c’è bisogno di chiarezza per riportare serenità là dove ogni giorno si lavora al confine tra vita e morte».

Vera Schiavazzi
19 ottobre 2007

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